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Bisognerà fare il Pd da un’altra parte?

Di
Redazione
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30 Gennaio 2023

«Se non va bisognerà fare il Pd da un’altra parte». Questa affermazioni cosi apodittica di Paolo Gentiloni molti anni fa di fronte a conflitti e dilemmi esplosi alla fine della segreteria di Renzi, è stata riproposta in queste settimane da alcuni commentatori politici per stigmatizzare la drammaticità delle convulsioni nelle quali si dibatte il Partito democratico che non escludono ormai apertamente clamorose rotture.

Un’abiura per un partito inutile

Laddove il terreno unificante della maggior parte degli interventi era dichiaratamente smantellare l’identità politica del Pd originario, accusato di essere subalterno all’ordoliberismo, di non avere un esplicito profilo progettuale di sinistra, di non essere il “partito degli ultimi” bensì quello delle classi medie in ascesa e soprattutto di essersi schiacciato sulla esaltazione del mercato/impresa come condizioni indispensabili per la crescita, ma anche per la democrazia stessa.

In sintesi di essere un partito di governo invece che un partito antisistema; un partito della nazione, rifomista, che guarda al partito democratico americano e alle socialdemocrazie europee invece che un partito in lotta contro il modello di sviluppo che guarda a tutti i radicalismi minoritari che circolano nel mondo.

Certo la sostituzione di Alfredo Reichlin e di Pietro Scoppola con Nadia Urbinati, Sandro Ruotolo ed Emanuele Felice non poteva che partorire un impasto ideologico regressivo, votato alla creazione di un partito inutile, che non serve al paese e non combatte la destra.

Per gli esponenti più radicali del comitato dei saggi la rifondazione del Pd passava necessariamente per una abiura, piuttosto che da un ripensamento critico, della sua identità storica che lo aveva collocato fuori dal perimetro ristretto della sinistra di ascendenza comunista, fuori da ogni ancoraggio classista, sintetizzata dal suo nome stesso che non faceva programmaticamente nessun riferimento alla tradizione socialista; abiura che implicava necessariamente un ritorno a quel campo e a quell’impianto ideologico, che non faceva mistero di avere nel suo dna la passione rivoluzionaria e di guardare ancora al 1917 con un misto di nostalgia e di orgoglio.

Lo spazio non illimitato della convivenza

Non c’è dubbio che in quell’occasione si fosse superato il limite oltre il quale venivano meno tutte le ragioni di ogni possibile pluralismo all’interno dello stesso partito, nato per tenere insieme i riformismi minoritari all’interno di tutte le famiglie politiche della Prima Repubblica, perché la differenza d’idee e di proposte può convivere in una stessa comunità politica solo se si condividono sia la sua funzione storica – nel caso del Pd unire i riformisti e portarli al governo del paese in una nuova democrazia dell’alternanza – sia la sua tavola dei valori – l’identità democratica che si risolve in se stessa senza ulteriori specificazioni, la società aperta nella quale la libertà d’intraprendere si coniuga, non senza conflitti, con la giustizia sociale, la promozione dei diritti di tutte le minoranze, l’irreversibile scelta atlantista ed europeista.

Se questo terreno comune è messo in discussione fino a imputare allo stesso progetto fondativo la sequela di sconfitte elettorali che il partito ha inanellato dal 2014 quando aveva raggiunto il suo massimo consenso agli inizi della segreteria Renzi e si ritiene che la sua negazione o il suo superamento siano la condizione per il suo rilancio, hanno ragione tutti quei dirigenti o militanti del Pd che non si riconoscono in questa narrazione di rifiutarsi di stare in minoranza in questa nuova casa politica che non è altro che la riedizione di vecchi partiti della sinistra minoritaria usciti sconfitti dalla storia del secolo scorso.

Un lungo itinerario distruttivo

In realtà a ben guardare questa frattura distruttiva non nasce dalla sconfitta elettorale di settembre; è piuttosto l’epilogo di un lungo itinerario cominciato con il fallimento della segreteria di Walter Veltroni, incapace di reggere la pressione della sinistra dalemiana che aveva accettato obtorto collo il progetto del Lingotto e la nascita del nuovo partito nella misura in cui rompeva programmaticamente con la tradizione del Pci e della sinistra democristiana, per attraversare il terreno incognito di una forza politica che guardava più a Carlo Rosselli che ad Antonio Gramsci e Giuseppe Dossetti.

Fin dalla segreteria Bersani gli ex comunisti avevano cominciato a corrodere la nuova casa politica del riformismo italiano tentando di egemonizzarla con una riedizione delle vecchie tesi della sinistra Ds, aprendo un conflitto permanente con chi invece si riconosceva nella discontinuità progettuale e ideale rappresentata dal Pd, erede dell’Ulivo e del sogno di rifondare la democrazia italiana dopo il crollo della prima Repubblica in chiave maggioritaria e competitiva.

Ma la sconfitta elettorale del 2013 certificava che direzione politica espressa da questa nuova maggioranza antiveltroniana aveva fallito, dissipando il successo elettorale del 2008 e lasciando su terreno circa tre milioni di voti.

Il Pd era apparso un partito confuso – né di lotta né di governo – incoerente rispetto alle sue ragioni fondative, scosso da lotte intestine che la imprevista e improvvisa candidatura di Renzi alla segreteria rese dirompenti. Nonostante il consenso e il successo del sindaco di Firenze, che rappresentava anche nella sua giovane età e nella sua breve esperienza politica tutto il contrari delle tradizioni di sinistra espresse dai suoi competitori e dai suoi avversari interni, la frattura tra riformisti ed eredi del Pci con qualche truppa di complemento democristiana si accentuò diventando drammatica e soprattutto irresolubile.

La sconfitta referendaria, che vide il Pd spaccarsi in una lotta fratricida, fece emergere, al di là dei personalismi e degli errori, che nel Pd convivevano due idee dell’Italia e della sua democrazia, due visioni del futuro del paese e due idee sulla funzione di un partito di centrosinistra: i cultori della «costituzione più bella del mondo» si riconoscevano ancora nell’immobilismo istituzionale che già aveva contrapposto il Pci di Enrico Berlinguer e Alessandro Natta al Partito socialista italiano di Bettino Craxi, il teorico della “grande riforma” delle regole del gioco intesa come condizione della modernizzazione del paese, ma al contempo avversavano la democrazia decidente, iscritta nel dna del Pd.

Chi seguì Bersani e D’Alema nella ormai famosa scissione che portò alla nascita di Articolo 1 e poi di Liberi e Ugali, costituiva una minima parte della cosiddetta “ditta” che proseguì nel partito la lotta senza quartiere a Renzi e al “renzismo” visto come un corpo estraneo alla sinistra, come “destra”, fino alla delegittimazione giustizialista, mentre era l’interprete più fedele dell’identità piddina sempre più estranea alla sinistra interna interpretata da Orlando, Gianni Cuperlo e altri epigoni della storia irrisolta del Pci.

Guardare sempre a sinistra non è la soluzione, è il problema

Di fronte alla valanga populista del 2018 che travolse la sinistra in Europa e non solo in Italia la risposta della nuova maggioranza di sinistra che aveva messo in minoranza Renzi e il suo gruppo dirigente fu quella di accentuare ulteriormente il suo profilo di sinistra allontanandosi sempre più dal Pd delle origini, nella convinzione che vi fosse stata una frattura tra il riformismo e il popolo che poteva essere sanata solo inseguendolo nel suo presunto itinerario a sinistra.

Ma in quel frangente storico la rincorsa a sinistra condotta in maniera superficiale e frettolosa – come si fa a stare con il lavoro senza interrogarsi sullo sviluppo delle forze produttive? – si risolse nel collocare il mantra della lotta “alle diseguaglianze” e al “neoliberismo” e di un confuso ambientalismo  nella deriva assistenzialista, antindustriale, giustizialista impressa dal populismo grillino, a cui si riconosceva una matrice di sinistra del tutto assente.

Questa virata ideologica non si fondava su nessuna analisi concreta: era la sovrapposizione alla realtà di miti e sogni del passato operata da una minoranza che si è rivelata elettoralmente inconsistente.

È la deriva permanente del massimalismo e dell’estremismo: si era già manifestata un secolo fa, seppur in dimensioni ben più tragiche, dopo la Grande guerra, si era riproposta nel secondo dopoguerra, negli anni sessanta e settanta, e si era già cimentata vittoriosamente nell’impedire la nascita effettiva del Pds e nello sfasciare sul nascere l’Ulivo. Questa operazione si combinò con il tentativo di riorganizzare il partito rinunciando alla effettiva contendibilità delle cariche e dell’apertura alla società civile e trasformandolo in un partito di capicorrente stretti da un patto di sindacato per distribuirsi incarichi e poltrone dal centro alla periferia: era la traduzione peggiore del famoso “noi” contro l’”io”, del collettivo contro la solitudine del leader.

Il rinculo populista

Questo progetto non ha pagato se, nei quattro anni dopo il 2018, il Pd ha perso quasi tutti i governi regionali e molti comuni di grandi e medie città e soprattutto non ha allargato la sua base elettorale: il popolo che era “fuggito nel bosco” lì è rimasto o peggio ha dato un consenso sempre più consistente alla destra sovranista di FdI.

La costruzione di un profilo ideologico socialista o laburista che puntava – sponsor Bettini, alias D’Alema – alla creazione del partito unico demopopulista con i Cinquestelle tentata soprattutto con il Conte II e con la segreteria di Nicola Zingaretti ha subito certo una battuta d’arresto con l’operazione Mario Draghi escogitata dalla minoranza riformista di Italia Viva e con l’appoggio ambiguo del Pd diretto da Letta, ma non ha invertito le dinamiche di un processo di mutazione profonda di quel partito.

Al suo interno infatti non vi erano più le forze in grado di fare della agenda del governo più riformista, dopo quello di Renzi e del Prodi 1, la leva per rompere il patto populista tra Pd e M5s e ricollocare il Pd fuori dalla deriva sinistra i cui i capi di quasi tutte le correnti lo avevano cacciato.

Per paura di essere tacciati di renzismo i pochi riformisti rimasti nel Pd per quattro anni hanno deciso di tacere assecondando un unanimismo di facciata autoconvincendosi che la dialettica interna al Pd era uguale a quelle dai partiti socialdemocratici da sempre divisi tra una destra e una sinistra interna. Ma era una raffigurazione consolatoria perché la sinistra interna al Pd non ha nulla a che spartire con la socialdemocrazia ma non sì è liberata di un antagonismo messianico che rievoca, come ha ricordato Arturo Parisi, il 1921 e la fondazione del PCI a Livorno: non a caso la candidata Schlein da quella città farà partire la sua campagna per le primarie.

Perse le elezioni per l’assenza di una proposta di governo e di un leader-Presidente del Consiglio, la maggioranza di sinistra alla guida del partito invece di prendere atto del suo fallimento ha riproposto la stessa analisi del ’18, inventandosi che era stato il fantasma di Renzi, sotto le mentite spoglie del tecnocrate Draghi, a rallentare la marcia del grande abbraccio tra il massimalismo e il populismo e quindi a decretare la sconfitta elettorale.

Invece che una autocritica radicale lo stesso gruppo dirigente notabilare ha imputato sempre allo stesso vizio di origine del Pd la sconfitta elettorale: sul banco degli imputati sono stati ancora fatti salire ancora Renzi e poi Draghi, la vocazione maggioritaria, il liberalismo di sinistra, l’americanismo, la globalizzazione, il riformismo, persino il sostegno alla resistenza ucraina, chiamando il congresso a decretare trasformazione del PD in un partito pseudo socialista di “unità populista”; una via di mezzo tra il Psiup e il Pdup, tra France insoumise e Podemos, finalizzata a unire la sinistra attorno al mito purificatore dell’opposizione e della lotta al liberismo.

Ma un partito identitario di sinistra minoritario che programmaticamente dismette la cultura di governo e il suo sforzo di parlare al paese nel suo complesso è il contrario del Pd e delle ragioni storiche che lo hanno fatto nascere ed è destinato irrimediabilmente a una crescente marginalità politica: una specie di Rifondazione comunista 2.0, peggiore dell’originale.

Un nuovo Pd, altrove

Ma più il Pd si allontana dalle sue vocazioni e ambizioni originarie, senza che nessuno si assuma la responsabilità di fermare questa deriva (non basta denunciarla timidamente e ormai oltre la zona Cesarini), più cresce l’esigenza di seguire il suggerimento di Gentiloni, cioè ricostruire una casa dei riformisti dopo che quella faticosamente messa in piedi quindici anni fa è stata corrosa dal tarlo malefico del massimalismo populista.

Circa due milioni di persone hanno dato credito alla lista Calenda nata dall’incontro tra Azione e Italia viva –altro che sconfitta elettorale come si attardano a sostenere anche i riformisti rimasti nel Pd forse per salvarsi la coscienza – assumendola non come punto di arrivo ma come il primo nucleo organizzativo di un progetto più ampio di aggregazione politica nel quale si possano riconoscere e al quale possano collaborare quei cittadini e quelle cittadine che non vogliono morire bipopulisti ma che ritengono che esista lo spazio per una nuova “via” del riformismo europeista.

Il partito nuovo che dovrà nascere dal concorso di queste forze non deve cominciare da zero perché la sintesi del Lingotto 2008 resta ancora a tutti gli effetti il punto più alto di elaborazione del riformismo italiano, ma che va aggiornato alla luce della doppia crisi della globalizzazione neoliberista e del multilateralismo delle relazioni internazionali che impone di rideclinare il rapporto tra pace, libertà e giustizia sociale e ridefinire in termini nuovi i caratteri di un liberalismo inclusivo come orizzonte ideale del riformismo europeo.

Accettare la sfida?

Guai se i promotori della federazione tra IV e Azione dessero l’idea che i giochi siano fatti e che agli altri non resti che aderire a un progetto politico già elaborato. È invece vero il contrario: senza gli altri che ora stanno nel Pd, in +Europa e in altre casematte liberali e socialiste il partito nuovo del riformismo italiano e destinato a non nascere.

È un percorso lungo e faticoso, esposto a tutti i rischi del fallimento se non si formerà un gruppo dirigente capace di guidare a partire dalla dimensione europea un partito della nazione: non un partito dei sopravvissuti, non un “partito dei sindaci”, ma un partito nuovo che si assuma il compito di ripartire da quella vecchia fabbrica torinese dove il riformismo liberale e inclusivo aveva scritto la sua pagina più compiuta e lungimirante.

E una sfida che riguarda anche i riformisti che rimangono nel Pd e che quella pagina avevano contribuito a scriverla: se ritengono che basti sostenere Stefano Bonaccini che resta un “comunista emiliano” poco sensibile al richiamo di questa tradizione politica, la partita è persa in partenza perché avranno deciso di essere una minoranza presto silente nel nuovo Ds incapace di sfuggire alla morsa populista.

Se invece decideranno di rimettersi in cammino dando battaglia oggi nel congresso del Pd e domani partecipare alla riunificazione dei riformisti in nuovo luogo che essi stessi contribuiranno a definire vorrà dire che sono usciti dal “grande sonno” in cui riposano da oltre cinque anni.

 

* Pubblicato su Linkiesta del 10 gennaio 2023