Di Marco Follini
Per fortuna esistono gli anniversari. Giustappunto un anno fa -un anno e due giorni, per essere pignoli- cadeva il governo di Mario Draghi spianando la strada verso le elezioni che avrebbe poi vinto Giorgia Meloni. E prima ancora, dieci anni fa, il progetto di Mario Monti e della sua “Scelta civica” si infrangeva sugli scogli di un altro, severo e deludente, responso elettorale.
A dire il vero, Draghi era caduto ancora prima. Quando i parlamentari gli avevano sbarrato il passo verso il Quirinale. Alcuni con l’intento di colpirlo e affondarlo, come poi è accaduto. Altri con l’illusione che il suo governo strada facendo si potesse piuttosto consolidare. Due intenti opposti, come si vede. Il primo assai meno nobile. Il secondo assai meno intelligente.
Ora l’ex premier ostenta un serafico distacco dalla contesa politica. E se prima mostrava di non curarsi più di tanto del consenso parlamentare di cui avrebbe avuto bisogno, ora sembra ascoltare le velate critiche che di tanto in tanto gli vengono rivolte con una sorta di quasi benevola degnazione. Peccato che se lui si dichiara appagato -con qualche amichevole dubbio sulla sua sincerità- il resto della carovana politica avrebbe forse qualche ragione per essere meno compiaciuta.
Il fatto è che quei tecnocrati alla Draghi, muniti di senso civico, rigore intellettuale e amor di patria, fanno sempre una gran fatica a navigare nei mari tempestosi della politica italiana. La loro severità non piace a chi dovrà poi fare i conti con gli elettori. E la loro capacità di parlare al cuore del paese non è quasi mai del tutto convincente. Così, la loro popolarità -quando c’è- dura lo spazio di un mattino. Giusto il tempo di sculacciare i partiti per aver fatto un po’ di pasticci. Salvo tornare a votarli il giorno dopo confidando in una occasione più propizia.
Che i partiti intendano tenere in mano il bandolo della matassa politica non dovrebbe scandalizzare. E’ la fisiologia della democrazia. E però, per conservare questa loro sovranità, la gran parte delle volte le forze politiche sono spinte a parlare con lingua biforcuta. Il giorno prima, in campagna elettorale, fanno fuoco e fiamme. Il giorno dopo, al governo, fanno i conti con il principio di realtà. Quando poi perdono il controllo delle cose sono indotte a cercare un tecnico che funga momentaneamente da salvatore della patria. Salvo tornare punto e daccapo alla prima occasione utile.
In questo modo però si finisce per ingenerare un inevitabile corto circuito. Infatti i partiti si sono abituati a pensare che le parole più severe le debbano adoperare solo i tecnici. I quali a loro volta sono tentati di credere che l’accesso al potere e alla responsabilità politica possa passare per altre vie, non necessariamente quelle del consenso elettorale. Ognuno fa a metà il proprio compito. Ma solo a metà. E il governo della cosa pubblica, inevitabilmente, ne risente.
In passato le cose andavano diversamente. I leader di una volta affrontavano le tempeste dell’opinione pubblica senza spavalderia ma con un briciolo -almeno un briciolo- di forza d’animo. E accanto a loro i tecnici dell’epoca disegnavano scenari e prospettavano soluzioni sapendo che sarebbero stati ascoltati senza pesare troppo sulla bilancia elettorale. La collaborazione tra i due ambienti fu il motore dell’innovazione del dopoguerra. E proseguì fino a quando la prima repubblica non imboccò, anche per sua colpa, una vorticosa china discendente.
Da un certo momento in poi ai grandi commis d’Etat non fu più chiesto di fornire idee. Solo di badare momentaneamente ai conti. Quei conti che ai partiti erano sfuggiti di mano facendoli trovare ai ferri corti con le loro promesse, con i loro elettori e con i loro obblighi internazionali. E’ cominciata allora quella strana alternanza tra regole politiche ed eccezioni tecnocratiche. Un raro caso di regole che hanno bisogno di eccezioni e di eccezioni che però non confermano quasi mai le regole”.
(di Marco Follini)