Non è illegittima la disciplina dei licenziamenti collettivi prevista dal Jobs act. Lo ha sancito la Corte costituzionale che, con una sentenza depositata oggi, ha dichiarato “non fondate” le questioni di legittimità costituzionale sollevate in riferimento agli articoli 3, primo comma, e 10 del decreto legislativo 23/2015, il quale, in attuazione della legge 183/2014, il cosiddetto Jobs Act, ha introdotto il contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio.
La Corte d’appello di Napoli aveva censurato, in particolare, la disciplina dei licenziamenti collettivi quanto alle conseguenze della violazione dei criteri di scelta dei lavoratori in esubero. Si è prevista una tutela indennitaria, compensativa del danno subito dal lavoratore, ma non più la tutela reintegratoria nel posto di lavoro, in simmetria con l’ipotesi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo. La legge di delega aveva, infatti, escluso, per i “licenziamenti economici” di lavoratori assunti con contratti a tutele crescenti (quindi a partire dal 7 marzo 2015), la possibilità della reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, e aveva previsto un indennizzo economico, limitando il diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato.
La Corte, considerando anche i lavori parlamentari e la finalità complessiva perseguita dal Jobs Act, ha ritenuto che il riferimento contenuto nella legge di delega ai “licenziamenti economici” riguardasse sia quelli individuali per giustificato motivo oggettivo, sia quelli collettivi. Ha quindi escluso che, sotto questo profilo, ci sia stata – come invece assumeva la Corte d’appello – la violazione dei criteri direttivi della legge di delega. I giudici costituzionali hanno ritenuto non fondata anche la censura di violazione del principio di eguaglianza, comparando i lavoratori “anziani” (quelli assunti fino al 7 marzo 2015), che conservano la più favorevole disciplina precedente e quindi la reintegrazione nel posto di lavoro, e i lavoratori “giovani” (quelli assunti dopo tale data), ai quali si applica la nuova disciplina del Jobs Act. Il riferimento temporale alla data di assunzione – rileva Palazzo della Consulta – consente di “differenziare le situazioni: la nuova disciplina dei licenziamenti è orientata ad incentivare l’occupazione e a superare il precariato ed è pertanto prevista solo per i ‘giovani’ lavoratori. Il legislatore non era tenuto, sul piano costituzionale, a rendere applicabile questa nuova disciplina anche a chi era già in servizio”.
Infine, la Consulta ha ritenuto “non inadeguata” la tutela indennitaria: attualmente al lavoratore illegittimamente licenziato all’esito di una procedura di riduzione del personale spetta un’indennità, non assoggettata a contribuzione previdenziale, di importo pari al numero di mensilità, dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, determinato dal giudice in base ai criteri indicati dalla stessa Corte in una sentenza del 2018, in misura comunque non inferiore a 6 e non superiore a 36 mensilità. (AGI)
OLL