Di Antonino Gulisano
Alla luce della emergenza della pandemia del coronavirus di sta appalesando in modo drammatico il fallimento della Sanità del famoso principio dell’autonomia differenziata e del regionalismo della tutela della salute. Alcune riflessioni a partire dalle esperienze di governo delle politiche sanitarie.
La grande sfida della riforma ter del Servizio sanitario nazionale (SSN), nota come riforma Bindi, attuata con il d.lgs. n. 229/1999, fu quella di rilanciare la sua l’impostazione pubblicisticaattraverso la valorizzazione del ruolo di coordinamento dello Stato nel rapporto fra soggetti istituzionali del SSN e soggetti privati accreditati. L’avvio, oggi, per le regioni Veneto, Lombardia e Emilia-Romagna, del procedimento di attuazione del regionalismo differenziato, ex 116, co. 3, Cost., appare come la prova più evidente del fallimento di quel progetto.
L’amministrazione della salute ha avuto spesso un ruolo anticipatore di istituti del regionalismo italiano. Con riferimento alla riforma del 2001, ne sono esempi la determinazione dei “livelli essenziali delle prestazioni” dei diritti civili e sociali, che ha un precedente nei “livelli uniformi delle prestazioni” sanitarie, previsti nella l. n. 833/1978, e il potere sostitutivo dello Stato introdotto con il d.lgs. n. 229/1999 e oggi previsto dall’art. 120 Cost. I casi citati, testimoniano, fra l’atro, l’imprescindibilità, a fronte del riconoscimento di maggiore autonomia regionale, di strumenti di garanzia dell’uniformità dei diritti.
In assenza di leggi di attuazione, il Governo Gentiloni, nei primi accordi del febbraio 2018, si è riferito espressamente al procedimento consolidato in via di prassi, nell’approvazione delle intese fra Stato e Regioni. Oggi si dimostrano i limiti evidenti in considerazione delle ricadute che tali scelte hanno avute, sul piano dell’uniformità e universalità delle prestazioni sanitarie, su tutte le altre regioni. Alla luce di quanto detto e fermo restando che dalla lettera dell’art.116, co. 3, Cost., l’“intesa” non raggiunta fra “lo Stato e la regione interessata”, sembra che si guardi alle prassi delle intese Stato-regioni oramai consolidate nel governo della salute. Lo “sperimentalismo pericoloso” di tale procedura, definita financo “eversiva” appare evidente; la previsione di fasi successive all’approvazione parlamentare delle intese rimette la sostanza della decisione ad una sub-procedura e aduna fonte, il DPCM, che sfuggono al controllo del Parlamento, delle regioni (la prima) e della Corte costituzionale (la seconda). Ugualmente critica si rivela la procedura individuata per il trasferimento delle“competenze legislative e amministrative attribuite alle regioni”, da effettuarsi sempre con uno o più DPCM, ma, in questo caso, con l’acquisizione dei “pareri” della Conferenza Unificata e delle commissioni parlamentari sugli schemi dei decreti.
La valutazione generale sui progetti di autonomia differenziata, che molto ci dicono sui processi di trasformazione del sistema di welfare dell’intero Paese, non può trascurare l’emersione di unadecisa spinta del regionalismo italiano a transitare da un modello ‘solidale’ ad un modello “competitivo”.
Il regionalismo differenziato non solo non sarà a costo zero per lo Stato, contrariamente a quanto previsto dall’art. 5 delle stesse bozze di intesa, dove si afferma che “dall’applicazione della presente intesa non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica” ma, con evidente eterogenesi dei fini, finirà per rappresentare un costo per le regioni più povere, si pensi ad esempio alla richiesta di istituire fondi integrativi regionali favoriti da misure di defiscalizzazione che ancora una volta smentirebbe la neutralità perequativa delle misure.
La realizzazione di tali richieste costituirebbe un’evidente violazione dei principi affermati dagli artt. 3 e 53Cost. Nel primo caso perché creerebbe nuove forme di discriminazioni fra cittadini basate sulla residenza e sul reddito; nel secondo caso poiché il richiamo al dovere di contribuzione alle “spese pubbliche”, nelladisposizione è chiaramente riferito allo Stato “unitariamente inteso”. La bocciatura del referendum costituzionale del 2006 che ha respinto il progetto di devolution della tutela della salute, riconfermando il ruolo fondamentale dello Stato quale garante della universalità del SSN.
A seguito di queste riflessioni e del fallimento acclarato del regionalismo sanitario è tempo di riformare il Sistema Sanitario nazionale con alcune proposte urgenti.
Il dilemma che continuamente viene posto è prioritario la Salute o il Lavoro, come economia? Il dilemma da un milione di euro. Eppure, ambedue sono tutelati dai principi costituzionali. Quale possibile soluzione? Ricordando i miei studi di K. Popper voglio richiamare un concetto significativo del testo: La Società aperta e i suoi nemici. L’individuo come persona è al centro del sistema sociale e politico, distinguendo i due concetti di individualismo da egoismo. Se l’uomo come individuo persona sta al centro del sistema sociale la soluzione è obbligata e semplice salvaguardare la dignità dell’individuo come persona tra i due corni: salute e lavoro. In questa prospettiva ritengo che il Governo attuale non riesce a trovare una reale via d’uscita e una proposta da condividere con i cittadini. Questa maggioranza che sostiene il Governo è divisa nelle soluzioni da adottare specie nei settori della salute e della economia.
Ultima annotazione sul DPCM del 4 Novembre, che suddivide l’Italia in tre aree: Rossa o di maggiore diffusione del virus; Arancione con meno incidenza di diffusione, ma con carenza delle strutture di posti letto intensivi, Gialla con poca incidenza di diffusione del virus.
Tutte le Regioni stanno ribellandosi rispetto alla decisione del Governo nazionale. Mi riferisco ad una polemica del Presidente Musumeci della Regione Sicilia, il quale sa benissimo che la regione Sicilia è stata classificata Arancione perché non risponde al criterio prioritario dei posti letto carenti per stanze intensive. Quindi, è una polemica fuori luogo.