MARIO DRAGHI E LA QUESTIONE MERIDIONALE
di Antonino Gulisano
“Abbiamo tutti bisogno dello sviluppo del Mezzogiorno”. Mario Draghi, allora governatore della Banca d’Italia, apriva così, con mirabile sintesi, l’incontro su “Il Mezzogiorno e la politica economica in Italia”:
Correva l’anno 2009, Draghi invitò tutti a “riesaminare il problema che ha segnato la storia economica d’Italia fin dalla sua Unità”, descrivendo assai bene un quadro economico che negli undici anni successivi purtroppo sarebbe addirittura peggiorato.
In quell’occasione Draghi disse: “Affinché il Mezzogiorno diventi questione nazionale, non retoricamente ma con ragionato pragmatismo, ogniqualvolta si disegni un intervento pubblico nell’economia o nella società occorre avere ben presenti i divari potenziali di applicazione nei diversi territori e predisporre ex ante adeguati correttivi. Interventi di politica regionale tradizionale potranno dare un contributo solo se congegnati in coerenza con gli interventi generali”.
A fronte del progressivo aggravarsi dell’emergenza Mezzogiorno, negli anni successivi a quel discorso, trovò applicazione il folle federalismo alla “Robin Hood al contrario”, improntato al criterio della spesa storica. Quel “federalismo fidcale” in base al quale se un comune del Nord ha quattro asili e uno del Sud zero, non bisogna dare soldi al comune del sud per gli asili perché, evidentemente, non gli servono. A qualcuno sembrerà incredibile ma questo è accaduto in Italia, ampliando sempre più il tragico divario tra i diritti di chi nasce nel Mezzogiorno e quelli degli altri italiani. E alimentando quel processo di nuova emigrazione, soprattutto di giovani qualificati, che sta svuotando la Sicilia e il Sud derubando il futuro.
In quel 2009, Draghi osservava che: “Politiche pubbliche uniformi producono effetti diversi a seconda della qualità delle amministrazioni e del contesto territoriale. Nel definire la normativa e le risorse si deve tenere conto di questi aspetti; si devono anche prevedere meccanismi correttivi, che operino quando la qualità del servizio fornito alla collettività è inadeguata”.
Perdere di vista questo principio di buon senso e realtà significa condannare il Mezzogiorno a morte certa. Ora che Draghi è stato chiamato dal Presidente della Repubblica ad affrontare la sfida cruciale di formare un nuovo esecutivo e che un governo da lui presieduto potrebbe nascere con un consistente sostegno parlamentare, è ora di applicare quei principi ragionevoli esposti nel 2009dall’allora governatore della Banca d’Italia.
Principi da coniugare con quelli esposti dallo stesso Draghi solo pochi mesi fa, era l’agosto 2020, al Meeting di Rimini: “Ai giovani bisogna dare di più: i sussidi finiranno e resterà la mancanza di una qualificazione professionale, che potrà sacrificare la loro libertà di scelta e il loro reddito futuri”, disse in quell’occasione l’ex presidente della Bce.
I giovani cui dare di più sono anzitutto quelli del Mezzogiorno, che attendono risposte sul loro futuro, non sussidi come il reddito di cittadinanza o i bonus a pioggia. Per farlo c’è l’occasione offerta dal Recovery Fund, che può essere il “debito buono” di cui Draghi parlò al Meeting contrapponendolo a un “debito cattivo”: il primo è quello che finanzia la crescita, l’altro è quello puramente assistenziale.
Non è pertanto dai sussidi che può venire uno sviluppo durevole delle attività produttive, ma da un piano di programma sulla qualità dei servizi e degli “asset di governace” dello sviluppo. Dalla sanità pubblica nelle strutture territoriali alle risorse umane professionali, alle infrastrutture primarie sulla mobilità e la crescita economica in agricoltura e nel turismo culturale, archeologico e ambientale.
Passare dalle parole ai fatti. La totale assenza della questione meridionale nel dibattito pubblico non ci fa sperare molto. Ci auguriamo che la pioggia di fondi del Recovery possa essere l’occasione buona. Difficilmente ce ne saranno altre.
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Source: Da QdC ad Imprese
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