Il governo inserisce le “autonomie differenziate” nel collegato alla legge di bilancio
di Antonello Longo
In questo tempo di angosciosa incertezza per la nuova ondata di contagi da Covid 19, sono sotto gli occhi degli italiani gli effetti pratici di un regionalismo emulativo e conflittuale.
Le cittadine e i cittadini, in ansia per la loro salute, per il mantenimento del posto di lavoro, per la stessa sopravvivenza delle attività economiche da essi intraprese, assistono attoniti alla competizione delle regioni tra loro ed allo scontro continuo tra i “governatori” delle regioni e il governo centrale.
A nessuno, in atto, risulta chiara la ripartizione delle competenze tra stato e regioni, tutti, invece, si rendono conto dell’impreparazione con cui le istituzioni, ad ogni livello, affrontano la pandemia, della palese inadeguatezza delle aziende sanitarie locali, delle perverse conseguenze di decenni di tagli alla spesa pubblica nella sanità e della presunta “aziendalizzazione” del sistema a tutto vantaggio della progressiva privatizzazione del comparto.
Di fronte al dramma, al momento acuto dell’emergenza, c’era da aspettarsi che si cominciasse quantomeno a discutere di un ritorno al servizio sanitario nazionale, pubblico e gratuito per tutti, così come ad una seria e rigorosa revisione del testo del titolo quinto della Costituzione, quello che fa da cornice all’ordinamento di regioni, province e comuni, che fu interamente riscritto dal parlamento nel 2001 in modo tale da creare una massa enorme di contenziosi ed il massimo della confusione.
E cosa accade, invece? Che il governo Conte-due, con il ministro Boccia (PD) al dicastero delle regioni, inserisce come collegato alla legge di bilancio 2021 una legge-quadro nella quale si recepiscono gli accordi sulle “autonomie differenziate” fortemente voluti dalla Lega di Salvini, Zaia e Fontana, ma in realtà stipulati in forma di pre-intesa dal governo Gentiloni (PD) tre giorni prima delle ultime elezioni politiche.
La richiesta di autonomia differenziata proviene da Veneto e Lombardia, che hanno celebrato a suo tempo appositi referendum consultivi, ma anche dall’Emilia Romagna di Bonaccini (PD), con quasi tutte le altre regioni, da Nord a Sud, pronte a seguirle.
L’autonomia differenziata, richiesta appellandosi all’art. 116 terzo comma della Costituzione, consiste nella “rimodulazione” delle competenze delle regioni a statuto ordinario rispetto ad una serie molto vasta di materie – Zaia e Fontana ne richiedono 23 – da trasformare da “concorrenti” a oggetti di competenza esclusiva delle regioni, naturalmente con l’assegnazione delle relative, nuove e maggiori risorse finanziarie.
Insomma, le regioni in questione diventerebbero arbitre esclusive della sanità (che già impegna più della metà di tutti i bilanci regionali, con i risultati che si sono visti), delle infrastrutture strategiche, dell’ambiente, della scuola, delle politiche attive del lavoro, del turismo, della cultura e così via. Una sorta di “secessione dei ricchi”.
Mentre le regioni del Mezzogiorno scontano ad un prezzo socialmente insostenibile il cosiddetto “federalismo fiscale” (legge Calderoli del 2009), governo e “grandi” forze politiche forzano un processo, purtroppo già avviato tagliando fuori il Parlamento, che porta al definitivo smembramento della coesione nazionale, facendo saltare i meccanismi di redistribuzione del gettito fiscale a tutto vantaggio del Nord e tagliando fuori definitivamente il Sud, considerato una vischiosa palude, un “sussidistan” la cui inefficienza istituzionale rende inutile sprecarvi risorse pubbliche sottraendole alla parte più efficiente e produttiva del Paese.
Per giustificare la scelta di portare avanti le autonomie differenziate, il ministro Boccia ha insistito sull’attuazione dei LEP (livelli essenziali delle prestazioni), indicatori previsti dalla Costituzione per garantire che lo Stato centrale fornisca direttive programmatiche cui i governi locali devono adeguarsi nel redigere i rispettivi bilanci e nell’eseguire le funzioni loro attribuite.
Perché la Costituzione repubblicana, parlando (articolo 5) di “autonomie locali e decentramento amministrativo” e dicendo (articolo 114) che “la Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato” accenna, sia pure velatamente, ad una forma di federalismo solidaristico, meglio specificando (articolo 117, secondo comma, lettera m) che lo Stato deve garantire il godimento dei diritti civili e sociali “su tutto il territorio nazionale”, eliminando gli squilibri e tutelando la coesione sociale e l’unità economica della Repubblica.
Ma è, quella del governo, una posizione quanto mai debole, perché i Livelli Essenziali delle Prestazioni, così come i LEA (Livelli Essenziali di Assistenza) nella sanità, affidati, come sono nella legge-quadro di Boccia, alle conferenze stato-regioni, saranno sempre soggetti al prevalere degli interessi dei più forti, cioè delle regioni del Nord.
Intervenendo, poche settimane fa, all’inaugurazione della Fiera del Sud di Bari, il “governatore” della Puglia, Emiliano, ha parlato chiaramente di una rottura tra Nord e Sud proprio sui LEP, “insieme ad altre regioni del Sud – ha detto – abbiamo deciso di non partecipare al tavolo della Conferenza Stato-Regioni che sembrava aver definito, nell’esclusivo interesse del Nord, la questione dell’autonomia e, conseguentemente dei LEP”.
A questo punto, come cittadini, contribuenti, lavoratori, categorie produttive, è lecito domandare a chi ci governa se la strategia è quella di staccare e far correre da sola la locomotiva del Nord, come vogliono Confindustria e i fautori dell’autonomia differenziata separatista.
Quale progetto di paese si vuole portare avanti? Chi prende le decisioni, come e dove? Come saranno distribuite le risorse europee?
Esigiamo risposte.