Ricordare significa vivere, una parola contro l’orrore e l’indifferenza
” Le coscienze possono nuovamente essere sedotte ed oscurate, anche le nostre.” (Primo Levi)
Il più grande male del mondo è il male commesso da nessuno, da esseri umani che rifiutano di essere qualcuno”. Hannah Arendt
di Ionella Paterniti
La memoria serve a sentire le cose vicine, presenti, possibili. A questo serve. Ricordare eventi come l’olocausto è utile ad essere consapevoli di un fatto agghiacciante ma reale: quell’orrore potrebbe succedere di nuovo. E l’unico antidoto al ritorno della malattia autoritaria e nazifascista è il ricordo. Non abbiamo capito nulla se pensiamo che il “Giorno della Memoria” sia un momento di esorcismo collettivo, utile a suscitare tutt’al più una ventiquattr’ore di emotività, compassione e simpatia per gli ebrei.
Gli spietati esecutori dello sterminio di sei milioni di ebrei appartenevano a questa terra. E non erano belve. Né mostri. Né diavoli. In effetti, ci rammentano i dialoghi e le immagini storiche e di repertorio del processo Eichmann visto con gli occhi di Hannah Arendt, i volenterosi carnefici degli ebrei erano dei «signor nessuno». «Perfette nullità». «Mediocrità». «Funzionari». «Burocrati». Erano l’omino inquadrato dalle telecamere di tutto il mondo e che riemerge da spezzoni di un documentario in bianco e nero, ripreso mentre sconcertato, incerto, tremolante, risponde alle domande del Procuratore generale «… ma la legge è legge… Ho solo eseguito ordini… Mi state rosolando come una bistecca sulla griglia».
La tragedia compiuta da Hitler e dai suoi alleati è stata solo lo sfondo, lo strumento utilizzato per esporre un concetto poco discusso e, sicuramente, poco popolare: la genesi e il significato del male. “Perché il male trionfi è sufficiente che i buoni rinuncino all’azione”. Genesi rivisitata in questo secolo da Martin Luther King che affermò, “non ho paura della cattiveria dei malvagi, ma del silenzio degli onesti.” Un male visto non come l’azione diabolica di un singolo ma come crollo della morale, non solo tra i persecutori (i nazisti) ma soprattutto nelle masse indifferenti.
Il grande crimine che riuscirono a compiere Hitler e il pensiero nazista non furono le centinaia di migliaia di uccisioni ordinate ma fu quello di rendere l’uomo “superfluo”, un uomo che, per compiere il proprio dovere, deve resistere alla tentazione di essere buono, un uomo che ubbidisce semplicemente ad un ordine, senza porsi dubbi sulla moralità di questo. Il rifiuto di essere una persona pensante, con delle idee e una capacità critica proprie.
Dunque se una comunità, una nazione, un popolo perde la memoria, non sa più chi è, ha perso la sua identità, brancola nel buio come un cieco: non sa più dove va, cosa fa e chi è. Quanto sarebbe facile, quindi, per questo “popolo cieco” ricadere negli errori del passato. Per questo è importante conservare anche una memoria collettiva dei grandi eventi della storia. Il pericolo è allora la perdita di “memoria, cadere nell’oblio, dobbiamo continuare a ricordare attraverso ogni forma, arte, storia cultura, famiglia scuola, fornire non solo un’istruzione ma un’educazione con il ricordo.
Se dunque conoscere è necessario, è importante trasmettere la memoria perché, anche se una tragedia di così grandi proporzioni come quella della Shoah (questo termine ebraico ha il significato di distruzione totale) probabilmente non si ripeterà più, è sempre possibile, comunque, che si ripeta il meccanismo della distruzione di una minoranza da parte di una maggioranza. E gli esempi purtroppo in questo senso non mancano. Il fenomeno del razzismo, ad esempio, ancora oggi è un pericolo perché ancora la diversità è vissuta come una minaccia alla propria identità.
La memoria non è solo un omaggio alle vittime di uno sterminio senza senso, ma è soprattutto una presa di coscienza collettiva del fatto che l’uomo è stato capace di questo. Non è la pietà per i morti ad animarlo, ma la consapevolezza di quello che è accaduto. La memoria è un riconoscimento a questa storia: come se ogni giorno tutti ci affacciassimo ai cancelli di un campo di sterminio, riconoscendovi il male che è stato, che non deve più accadere, ma che in un passato molto vicino a noi e nella democratica Europa, milioni di persone hanno permesso che si verificasse.
È fondamentale un lavoro di formazione, di trasmissione di valori, di sentimenti, ideali molto impegnativo ma altrettanto necessario per dare un senso alla vita e permettere che la vita abbia un senso. La memoria non è una cosa scontata, va allenata e tenuta costantemente in considerazione nella nostra vita quotidiana, pena perderla e ricadere così negli stessi errori del passato. Sia i nostri, personali, che quelli dei nostri antenati.
Il 27 gennaio la memoria di tutti noi va alle vittime dell’Olocausto, del nazismo e del fascismo. Quel 27 gennaio tra le persone liberate dalle truppe sovietiche c’erano moltissimi bambini. È anche attraverso la loro memoria che il ricordo dello sterminio nazifascista è potuto arrivare fino a noi nonostante revisionismi, complottismi e l’ascesa dei nuovi fascismi. Quei bambini, crescendo, hanno testimoniato, raccontato, spiegato e aiutato altri a capire un dramma storico tra i più atroci della storia recente. I loro ricordi, i loro racconti della diaspora dei loro cari, hanno funzionato da diario vivente di una tragedia, di un genocidio. E soltanto grazie al loro lavoro, a quello dei tribunali internazionali e degli storici il ricordo dell’Olocausto si è mantenuto vivo (George Kateb).
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Source: Da QdC ad Imprese
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